Entrato a far parte del linguaggio comune, ognuno di noi ha sentito parlare almeno una volta del “Karma”, di quel destino ineluttabile ed inevitabile per cui siamo predestinati a pagare in questa vita gli errori delle vite precedenti.
Un concetto che nella religione cristiana non è concepito, dato che la Bibbia non crede nella reincarnazione delle anime dopo la morte del corpo terreno, ma in alternativa ha da sempre teorizzato l’esistenza di inferno e paradiso, di luoghi ultraterreni dove le nostre anime rimangono per l’eternità.
Ma pensare che karma voglia dire semplicemente “reincarnazione“, viaggio dell’anima attraverso vite diverse, è a di poco riduttivo: il concetto originale, mutuato dalle filosofie orientali, è ben più complesso, da spiegare e da comprendere.
Il concetto di Karma, adattamento del termine sanscrito trascritto nel vedico “kárman” o più comunemente “karman” origina dalle speculazioni religiose delle Upaniṣad vediche.
Le Upaniṣad sono dei testi a uso di coloro che partecipavano ai riti religiosi propri del Brahmanesimo e sono dei testi dove venivano date risposte ai dubbi morali ed esistenziali degli uomini.
I principi contenuti in questi testi sono fondamentali nell’Induismo, nel Buddismo, nel Giainismo e in altre religioni orientali.
Per i fautori di questo pensiero, ciò che siamo in questo momento è una somma esponenziale di tutti i momenti di esistenza del nostro passato, anche antecedenti alla nostra venuta in questo mondo.
Già al momento della nascita ci sarebbero infatti dei “contenuti” – memorie, desideri – che condizionano la persona nella quale l’anima si è “incarnata“.
La legge karmica sostiene quindi che le azioni sono cause e conseguenze di altre azioni, quindi non esiste nulla di casuale ma ogni cosa è interconnessa in un intreccio di legami causa-effetto.
Dunque, per il principio karmico, le azioni che producono effetti “negativi” influenzano negativamente il Dharma o “legge universale” e portano Karma “negativo” ; mentre le azioni “positive” portano un Karma “positivo” , tutto ciò sia nella vita attuale che nelle successive.
Spesso viene erroneamente considerata come una legge deterministica che induce al fatalismo e alla rassegnazione, ma in realtà il Karma dipende da noi, dalle nostre scelte, e può ovviamente cambiare nel tempo secondo il principio “ciò che si semina si raccoglie”.
Naturalmente nelle varie religioni il concetto è declinato in maniera differente, anche se la base è la medesima.
Nell’Induismo il principio karmico è legato a quello di “Sara” e “Moksa”, le vie che conducono alla liberazione dal ciclo delle rinascite.
Il “Dharma” o legge universale, nel significato di “corretto agire”, senza inganno, evita l’accumulo di Karma “negativo”, quindi ogni essere senziente contribuisce con il suo comportamento all’ordine cosmico.
Se infatti la via della liberazione induista comporta un ciclo di rinascite (saṃsāra) lunghissimo, che causa un senso di fatalismo pessimista nella vita presente, il buddismo offre un punto di vista più positivo e meno predeterminato.
Le buone azioni porteranno al bene, le cattive azioni al male e tutte le azioni dell’uomo, volute consapevolmente, avranno inesorabilmente conseguenze: inteso in questo modo, il Karma rende l’uomo responsabile delle proprie azioni e delle proprie decisioni, rendendolo protagonista del suo futuro.
Il principio di causa ed effetto è quello che sostiene tutti i principi del karma e delle religione indiane, “la grande legge” per eccellenza, ma ve ne sono altre undici di leggi da seguire per mantenere il proprio karma positivo.
Tra le altre spicca la legge della creazione, secondo cui non siamo soli nell’universo e ogni cosa che ci circonda deve essere presa in esame dal momento che influenza la nostra vita, la legge della focalizzazione secondo cui non è possibile pensare due cose nello stesso momento e se ci si concentra sulla spiritualità non si può allo stesso tempo provare sentimenti bassi come rabbia e frustrazione e la legge dell’altruismo e dell’ospitalità, secondo cui se si crede in qualcosa lo si deve mettere in pratica e nel momento in cui la vita ci chiama a sostenere i nostri valori noi li dobbiamo applicare.
Per quanto riguarda la coscienza personale, a differenza di quanto comunemente si pensa, non trova la sua collocazione all’interno all’essere umano, ma lo “circonda”, con quel fenomeno chiamato “aura”.
Anche se si riflette all’interno dell’essere attraverso i sentimenti, la coscienza, come fenomeno complessivo, resta esterna alla componente materiale a cui è collegata attraverso la mente. L’aura è quindi un fenomeno energetico paragonabile ad un campo radiante.
Un ruolo centrale ce l’ha anche “l’illusione del tempo”: noi percepiamo lo scorrere del tempo, ma la sequenza di passato-presente-futuro in realtà non esiste realmente, ovvero il passato e il futuro coesistono contemporaneamente al presente.
La legge del karma, in definitiva, è condivisa perché spiega molte cose: perché certe persone sono fortunate o sfortunate, perché certe si ammalano e altre no, perché si muore in un modo piuttosto che in un altro.
Inoltre la consapevolezza del modo in cui agisce il karma – istante dopo istante, ogni volta che scegliamo di compiere un’azione piuttosto che un’altra o abbandonarsi a un determinato sentimento – aiuta a sviluppare stati mentali funzionali ad ottenere una vita appagante e serena.
In sostanza, il karma propriamente compreso ci consente d’imparare dai nostri errori e di riparare colpe commesse nelle esistenze precedenti. Spesso l’apprendimento procede in maniera sottile: anche se non ricordiamo gli errori commessi nelle vite precedenti, siamo guidati naturalmente verso il progresso, o il regresso, a seconda dei desideri e delle attività del passato.
La meditazione è lo strumento principe, perché consente di sviluppare la comprensione e la convenienza allo scopo: si impara a leggersi dentro, nella propria mente, nel momento stesso in cui i pensieri si presentano ed in questo modo è possibile riprendere il controllo del karma iniziando a coltivare ciò che è più conveniente allo scopo di essere felice.